La volontà dichiarata, da parte della UE, di lanciare un piano di investimenti che si contrapponga a quello di $ 370 MD avviato dall’amministrazione Biden per sostenere l’economia “a stelle e strisce”, accompagnandola sulla via della sostenibilità e della transizione ecologica, da tornare di attualità il debito comune, argomento che ciclicamente si propone.
L’emissione di debito comune a tutti gli effetti è la certificazione dell’esistenza di una condivisione non solo di “valori” ma anche della effettiva partecipazione dei singoli Stati alla vita dell’entità comune a cui hanno deciso di dar vita. E questo potrebbe essere il vero “salto di qualità”, che contribuirebbe a far sentire i cittadini, indipendentemente dalla loro lingua, cittadini prima di tutti “dell’Europa”. Un processo, però, che appare ancora piuttosto lungo.
Ne è la riprova una lettera che sette Paesi membri (Danimarca, Finlandia, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria ed Estonia) hanno inviato, nei giorni scorsi, alla Commissione Europea, in cui i relativi Ministri delle Finanze confermano la loro contrarietà in nome del rischio che ne deriverebbe per l’integrità del mercato unico. La loro presa di posizione parte dal presupposto, sotto alcuni aspetti corretto, che attualmente, da parte dei Paesi membri, complessivamente sono stati utilizzati solo 100 dei 390MD previsti dal Fondo per la ripresa. In realtà, come noto, si tratta di un atteggiamento che ha origini lontane: il timore è che un vero “progetto comune” porti quei Paesi ad assomigliare a quelli oggi oggetto di molte critiche per le loro politiche “molli” in termini di rigore, cosa che li ha portati ad un debito pubblico da cui rientrare appare ogni giorno più difficile, oltre che esporli ad una fragilità finanziaria che potrebbe costare cara. Un costo che, facendo parte di una “comunità”, ricadrebbe certamente anche sugli altri.
Peraltro, certamente l’Europa sarà costretta a “battere un colpo” se vorrà competere con le altre economie mondiali, in primis, come è ovvio, gli Stati Uniti. Sappiamo bene come il Covid abbia modificato non solo le nostre abitudini di vita, ma anche gli approcci economici, facendo venir meno il concetto di globalizzazione, vero dominatore degli ultimi decenni. Oggi tutti parlano di “on-shoring”, vale a dire riportare “in casa”, o per lo meno vicino e in Paesi “amici”, molti processi produttivi. Da qui le politiche più “individualiste”. Senza arrivare al motto “America first” di trumpiana origine (con tutti i suoi emuli, grandi e piccoli), indubbiamente il piano varato da Biden va in questa direzione. Da qui la necessità di una replica da parte dell’Europa, se non vuole rimanere “fuori dai giochi”, schiacciata com’è tra gli Usa e la Cina, fortemente impegnata a “venir fuori” dalla crisi (e dall’isolamento) in cui l’ha fatta precipitare la pandemia.
Tra due settimane si terrà un nuovo vertice dei 27 Paesi UE: quale occasione migliore, quindi, per capire lo “stato dei giochi”, anche se la lettera dei 7 Paesi sembra essere un modo per indirizzare la discussione e arrivare, come al solito, ad un compromesso che metta tutti d’accordo.
Intanto oggi hanno riaperto, dopo una settimana di vacanza, i mercati cinesi. Shanghai, la più importante borsa della Cina, dopo un avvio molto promettente, si appresta a chiudere sulla parità. Sulla stessa linea d’onda, a Tokyo, il Nikkei, mentre ad Hong Kong, fa un passo indietro l’Hang Seng, in calo di oltre il 2%. Continua la debolezza della borsa di Mumbai, condizionata dalla discesa dei titoli delle società appartenenti al magnate Adani, uno degli uomini più ricchi dell’India.
Futures al momento tutti in rosso, con cali intorno al mezzo punto percentuale.
Apertura in leggero calo per il petrolio, con il WTI appena sotto i $ 80 (79,25, – 0,65%).
Gas naturale americano in nuovo calo, a $ 2,662, – 6,74%.
Oro sempre vicino ai massimi di periodo ($ 1.947, – 0,02%).
Spread di nuovo vicino ai 200 bp (195,5), con il rendimento del BTP tornato ben sopra il 4% (4,20%).
Bund oltre il 2,20% (2,23%).
Treasury al 3,50%.
€/$ a 1,086.
Week end positivo per le criptovalute: questa mattina troviamo il bitcoin a 23.700. Il rialzo, da inizio anno, nonostante i vari fallimenti più o meno grandi, che hanno bruciato centinaia di miliardi, supera il 44%.
Ps: Bill Gates, il fondatore di Microsoft, per anni l’uomo più ricco del pianeta (finchè non sono arrivati i vari Bezos, Musk e soci, comunque tutti lontani “suoi parenti”, essendo a capo di società operanti nel settore tech), non si può dire che non sappia diversificare (o che sia rimasto “ancorato” al suo mondo). E’ infatti, il maggior proprietario individuale di terreni agricoli negli USA. Oggi detiene, sparsi un po’ in tutti gli Stati americani, qualcosa come 268.986 acri (un acro equivale a 0,4 ettari), per un controvalore pari a circa, $ più dollaro meno, a $ 700ML. Secondo il Dipartimento dell’Agricoltura USA, nell’ultimo ventennio i prezzi sono lievitati di circa il 4,4% all’anno. Il magnate americano sarà anche molto “green”, ma senza dubbio ha un buon fiuto per gli affari.